Giancarlino, Benedetti Corcos

Inaugurazione: 05 Dicembre 2019 dalle ore 19:00

Galleria: Anteprima d'arte Contemporanea - Roma

a cura di:  Luigi Di Gioia 

Testo critico di Noemi Pittaluga

 

I colori delle fiabe: architetture dei nostri sogni

 

All’origine del c’era una volta c’è l’identità dell’uomo; la fabula che per etimologia significa racconto è l’evoluzione del mito, radice storica della nostra maturazione intellettuale. Giancarlo Benedetti Corcos ha voluto confrontarsi con questa articolata tematica per parlare della favola, del sogno e della loro commistione. Non è un caso, infatti, che il bambino sia introdotto al sonno con la narrazione orale nella quale i suoni delle parole diventano una ninna nanna, composta di concetti, e le suggestioni affabulatorie della fiaba stimolano l’immaginazione del piccolo, che si assopisce con in mente immagini da rielaborare. Per l’adulto che legge prima di andare a dormire il processo varia di poco, manca la voce del genitore o del nonno, ma gli occhi si chiudono immersi nelle vicende della storia presentata dal libro. Il disegno dal tratto colorato, aspetto specifico dei lavori di Giancarlino, diviene il mezzo per esprimere le suggestioni, nate dalla lettura e dal ricordo delle favole che hanno costituito il suo background infantile e la sua curiosità di oggi. L’iter concettuale che ha portato l’artista a comporre questo nuovo ciclo di opere pittoriche passa mentalmente dalle lunghe storie di Giambattista Basile, di Charles Perrault, dei fratelli Grimm, alle più brevi fiabe popolari di tradizione russa e alle antiche morali di Esopo per arrivare agli aforismi Haiku, capaci in poche parole di racchiudere significati profondi. I lavori esposti diventano in quest’occasione le pagine di un libro che racchiude gli episodi pregnanti di alcune favole (L’amore delle tre melarance, Cappuccetto rosso, I musicanti di Brema, Il pesciolino d’oro, Ivan lo scemo, Il ceppo d’oro), individuati dall’autore come particolarmente significativi. Spostandosi tra i dipinti, lo spettatore costruisce un proprio percorso narrativo osservando le illustrazioni dei passi rilevanti delle novelle in cui si individuano i valori della nostra cultura. Il gesto si fa segno pittorico carico di fantasia ed energia e le tipiche figure disegnate dall’artista si mostrano come sempre variopinte ed esili, ma ben riconoscibili. I nuovi personaggi inventati sembrano fluttuare nel perimetro della tela che definisce il tempo e lo spazio dell’ambientazione. Giancarlino non si smentisce e ancora una volta con la naturalezza del suo tratto dà prova di non aver nulla da dimostrare; schietto, vitale, vulcanico ci comunica il suo immaginario senza filtri con la forza di chi ha saputo rielaborare in maniera del tutto personale quegli insegnamenti profondi dei racconti che ci accompagnano per l’intera esistenza. L’autore sembra suggerirci che se in principio c’era il logos e nel mezzo della vita la selva oscura non ci rimane altro che aspettare inesorabilmente il gran finale del vissero felici e contenti.

 

Noemi Pittaluga

 

Giancarlino Benedetti Corcos (detto Giancarlino) è nato a Roma, nel 1954, dove vive e lavora. Dopo aver conseguito il Diploma all’Istituto Nazionale per la Grafica, si iscrive alla Facoltà di Architettura della Sapienza dove frequenta le lezioni di Bruno Zevi. Autore dal carattere eclettico, di volta in volta, sceglie il supporto dove dipingere: ceramica, tela, legno, carta, materiali di recupero, “lenzuoli” che appende al muro esterno del suo studio interagendo con i passanti. Accompagna le sue mostre con performance basate su testi teatrali (“commediole” scritte con Laura Rosso) o figure immaginarie. Ha esposto in Italia e all’estero; tra le numerose sedi istituzionali e gallerie ricordiamo: il Palazzo delle Esposizioni, la Galleria Giulia, la Galleria André, la Galleria Incontro d’arte di Roma, la Galleria Tornabuoni di Pietrasanta (LU), il Castello di Rivara – Centro d’arte contemporanea di Franz Paludetto – di Rivara (TO), l’Usine de Rue Charlot di Parigi e l’Onishi Gallery di New York. Ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2011 e presso la Facoltà di Architettura di Valle Giulia è presente una sua ceramica dal titolo Rosso del Debbio, prodotta per il quarantennale del 1968. Ha creato molte sue opere con Massimo Alessandrini (Mobili Facili) e Alberto Giuliani. Hanno scritto del suo lavoro: L.  Rosso, A. Bonito Oliva, L. Cherubini, G. Marramao, L. Scialanga, M. Morellini E. Orsini, V. Sgarbi. 

 

 

Noemi Pittaluga, nata a Genova nel 1985, è laureata presso l’Università Sapienza di Roma nel corso Specialistico in Saperi e tecniche del linguaggio teatrale, cinematografico e digitale. Dopo un Master in Curatore museale e di eventi performativi dello IED, è attualmente laureanda presso l’Università Sapienza di Roma nel corso Magistrale in Storia dell’arte. Ha pubblicato Introduzione, in Mario Vidor, Roma Capitale, (Punto Marte edizioni, 2019), il saggio Un’identità incerta tra vita e morte (Editoria e Spettacolo, 2012) e il libro Studio Azzurro. Teatro (Contrasto, 2012); dal 2010 lavora come curatrice d’arte indipendente.

 

 

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Giogli, Stefano - Going Slowly

Inaugurazione: 21 Marzo 2019 dalle ore 19:00

Galleria: Anteprima d'arte Contemporanea - Roma

a cura di:  Luigi Di Gioia e Paolo Franzò

Testo critico di Noemi Pittaluga

 

Going Slowly

Con il progetto fotografico Going Slowly, Stefano Giogli oltre a proporre un’interpretazione estetica personale del paesaggio, ci mostra un’attitudine di vita. La ricerca di luoghi silenziosi e dall’atmosfera raccolta e pacifica è parte del processo compositivo che inizia dall’indagine dei territori a kilometro zero e giunge alle regioni meridionali della penisola. Quello dell’autore è, quindi, un lavoro intriso di storia tipicamente italiana, perché suggestionato in particolar modo dalle visioni di Piero della Francesca, Luca Signorelli e Alberto Burri, ma al contempo nuovo soprattutto per il suo portato esistenziale e per il linguaggio artistico utilizzato. Luoghi naturali, boschi e strade si affiancano ad interni abitativi sempre epurati dalla presenza umana a sottolineare come l’ambiente inquadrato sia evidentemente la proiezione visiva di uno spazio interiore. Andare piano è il suggerimento dell’artista, visibile come scritta su un cartello stradale in un’immagine della serie, che spinge lo spettatore a fermarsi a riflettere sulla propria condizione quotidiana, spesso affaticata dal pressante impegno incombente. Come una regola non scritta, imparata in un percorso di psicanalisi, Going Slowly impone al fruitore una nuova presa di coscienza. L’allontanamento consapevole dall’evento contingente costringe l’osservatore a soppesare le sconfitte personali e i traguardi fin lì raggiunti. Il contributo di Stefano Giogli non si ferma però solo al semplice consiglio e alla semplice autoanalisi: lo spirito positivo che pervade il suo studio è trasmesso al pubblico. La convinzione dell’artista che l’animo sia soggetto a un continuo mutamento pone, a suo avviso, l’uomo davanti alla scelta di un cambiamento che ci viene proposto di intraprendere con spirito volitivo. La forza di Going Slowly è rappresentata dalla sua dimensione di ossimoro e di coincidentia oppositorum: infatti se da una parte si è invitati a rallentare il ritmo di vita, dall’altra si è spinti verso una tensione fattiva al fine di migliorare la propria condizione emotiva. L’intenzione (come lo stesso autore afferma in un video di presentazione del lavoro) è quella di “riordinare un disordine che si manifesta nel reale”. Stefano Giogli ci riesce e lo fa; come uno scenografo teatrale, osserva la scena e decide spesso di porre l’obiettivo davanti o dietro finestre, serrande, porte e cancelli incontrati nel suo analitico vagare per trovare immagini cariche di significato. Lo sguardo, similmente al pensiero, è mantenuto costantemente in esercizio e la relazione tra un fuori tangibile e un dentro soggettivo è la dimensione indagata. L’opera nasce dalla dialettica scaturita tra la concezione individuale e il mondo e le istantanee sono attimi cristallizzati, incontri magici che prendono forma in questa particolare ripresa fotografica.

 

Noemi Pittaluga

 

Biografia Stefano Giogli

 

Nato nel 1965, vive a Città di Castello (PG). Della fotografia ama il visibile e l'invisibile. Ha lavorato a numerosi progetti seguendo un’interpretazione intimista e riflessiva. È  membro  di Reflexions Masterclass ed è stato vincitore di diversi premi tra cui “Lifebility Immagine Premio Giorgio Polver” con A Tavola (2015) e “VIII Premio Bastianelli” con L'unico eri Tu, Postcart Edizioni (2012). Ha partecipato ad “Acta International” di Roma (2013), a “Les Rencontres d'Arles” (2012) ed altri festival importanti. Ha esposto in Italia e all'estero e collaborato con riviste italiane di rilievo (come “Focus”, “Io Donna”). Le sue pubblicazioni più importanti sono L'unico eri tu e Going Slowly, entrambe per Postcart Edizioni, Roma, 2011 e 2016.

 

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Vidor, Mario - In Silenzio

Inaugurazione: 15 Novembre dalle ore 19:00

Galleria: Anteprima d'arte Contemporanea - Roma

a cura di:  Luigi Di Gioia e Noemi Pittaluga

Testo critico di Noemi Pittaluga

 

Con curiosa attenzione, lo sguardo si accosta a rarefatti orizzonti marini, cristallizzati dallo scatto fotografico di Mario Vidor. In silenzio, titolo di questa serie di paesaggi, spinge l'osservatore a entrare in contatto con l'immagine attraverso una prolungata azione visiva. Come in un ralenti cinematografico, il fruitore sembra sperimentare emotivamente una dilatazione spazio-temporale che, inevitabilmente, lo trascina in una nuova dimensione psichica e mentale. Simili ad opere sacre e quindi auratiche (nonostante la riproducibilità del mezzo fotografico), i lavori di Mario Vidor si presentano come laiche icone a cui rivolgere le nostre domande più urgenti. Il mare, le barche, le reti, gli alberi sono i soggetti mostrati dall'artista che usa questi elementi come se fossero istanti di una meditazione interiore con la quale, prima o poi, ognuno deve fare i conti. Manifestazione profonda della personalità intimista dell'autore, le sue creazioni sono lo specchio di un'espressione linguistica totalmente atona e prettamente iconica. Pur mantenendo una solida identità stilistica, Vidor è indubbiamente capace di interpretare trasversalmente situazioni figurative differenti nel contenuto e nella rappresentazione. La scelta di una luce evanescente, delle prime ore del mattino, per le immagini a colori e il sapiente utilizzo del contrasto tra chiarore e ombra per le immagini in bianco e nero sono il fil rouge e l'impronta evidente di un paradigma compositivo ormai consolidato. In punta di piedi, l’artista ci indica uno spazio simbolico, relegato al pensiero che, qui, può nascere solo nella quiete solitudine naturale. Più lo scenario appare privo di suoni - spesso simbolicamente attutiti dalla neve fresca - più la riflessione aumenta replicando, metaforicamente, il rumore incessante dell'ingranaggio cerebrale, rappresentato dal costante scrosciare del mare sulla battigia. E in questa sorta di fusione ascetica con uno spazio altro, lo spettatore - come lo stesso autore al momento della scelta del soggetto da immortalare - non può che immergersi e farsi invadere da una nuova condizione esistenziale. Non è un caso che le opere, nelle quali la presenza umana è quasi del tutto assente, diventino un rifugio contemplativo offerto al pubblico. Un locus amoenus privato in cui, finalmente, il turbolento trova conforto in una condizione spirituale e consolatoria.

 

Noemi Pittaluga

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Vidor,Mario

Le pietre della memoria

 

16 novembre 2017 - 23 febbraio 2018

 

Inaugurazione: giovedì 16 novembre ore 19.00

 

La Galleria Anteprima d'Arte Contemporanea è lieta di presentare Le pietre della memoria, una mostra personale di Mario Vidor a cura di Noemi Pittaluga.

 

In Sicilia, tracce del passato e Roma, le colonne dell'Impero, Mario Vidor non attiva una mera riproduzione della realtà attraverso il mezzo fotografico, ma si distacca dal genere documentaristico creando un percorso visivo che trascende il soggetto inquadrato. Come statue totemiche del passato, le pietre, erose dal tempo, rimangono solidamente ancorate alla loro terra, immobili spettatrici degli eventi che hanno inevitabilmente modificato la società. L'utilizzo del bianco e nero accentua e sottolinea l'intenzione dell'autore; Vidor infatti sviluppa un ragionamento che si svolge seguendo due modalità di elaborazione: quella oggettiva, che prende in esame il passato storico, e quella soggettiva, che spinge colui che guarda a meditare sulle proprie esperienze. Il mare, le piante, il cielo, che si scorgono in lontananza nelle immagini, diventano elementi altrettanto protagonisti all'interno della composizione estetica, e la natura si fonde spontaneamente alle costruzioni di templi dedicati a divinità pagane (Tempio di Erode Vincitore, Tempio di Apollo Sosiano, Tempio della Concordia) e istituzionali (Villa Adriana, Arco di Costantino, Teatro di Selinunte) dei popoli graco-latini. Inoltre la classicità incontra la cristianità in diverse opere che inquadrano il Foro Romano e i monumenti, icone rappresentative della Capitale, come il Colosseo e Castel San'Angelo,  replicano la dualità percettiva trasmessa dall'immagine: il masso spesso squadrato - sopratutto nelle fotografie siciliane - si tramuta in un istante di memoria. L'incontro tra lo sguardo e l'opera si manifesta all'improvviso come un flashback emotivo; tasselli di un puzzle compongono un quadro intimo, uno spazio di riflessione e di raccoglimento. È spontanea l'immedesimazione con l'Adriano pensoso di Marguerite Yourcenar; per il tempo dell'osservazione lo spettatore sembra incarnare l'Imperatore all'interno del suo Teatro Marittimo e ragionare sull' '"immortalità intermittente" dell'umanità, sulla possibilità, seppur faticosa e quasi magica, di una comunità di intenti e di pensiero. La pace, la libertà, la giustizia e la cultura, simboli di civiltà, sono i valori che, citati nel romanzo, sembrano divenire focali per l'osservatore: siamo sicuri anche noi che, a intervalli irregolari, l'uomo riuscirà con impegno a ristabilirli. Proprio questo equilibrio tra spiritualità e forma, che si esprime nella nettezza dello sguardo degli scatti di Mario Vidor, trasmette al fruitore una condizione di armonia, di calma e di serenità che solo la saggezza dell'anziano, testimone di vita, è capace di elargire al suo ascoltatore. L'artista, attraverso questa personale mappatura degli edifici classici a Roma e in Sicilia, sembra imporci una tregua dalla frenetica e caotica quotidianità. La sdrammatizzazione degli accadimenti giornalieri può avvenire soltanto attraverso questo lucido atto di distacco che ci lascia ineluttabilmente un sorriso comprensivo e di apertura nei confronti del mondo.

 

 Mario Vidor (Farra di Soligo 1948) dalle prime esperienze pittoriche negli anni Ottanta, sposta la sua ricerca sulla fotografia, focalizzando l'attenzione in due direzioni: l'indagine storico-scientifica e il linguaggio creativo. Alla sua prima pubblicazione Sulle terre dei Longobardi (1989), sono seguiti diversi altri volumi di fotografia, e alcune singolari cartelle foto-litografiche. Ha vinto molti premi: nel maggio 2003 ha ricevuto il riconoscimento B.F.I. dalla FIAF e nel 2014 il riconoscimento A.F.I. Ha tenuto numerosissime mostre personali (oltre 290) nelle principali città italiane e all’estero (Francia, Germania, U.S.A., Repubblica Popolare Cinese, Croazia, Austria, Slovenia, Canada, Russia) dove le sue opere sono conservate in importanti collezioni di musei e gallerie.

 

Noemi Pittaluga (Genova 1985) Laureata e specializzata in Saperi e tecniche del linguaggio teatrale, cinematografico e digitale presso l'Università La Sapienza di Roma; dopo un Master in Curatore museale e di eventi performativi dello IED, si sta specializzando in Storia dell'arte presso l'Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato il saggio Un'identità incerta tra vita e morte (Editoria e Spettacolo, 2012) e il libro Studio Azzurro. Teatro (Contrasto, 2012); dal 2010 lavora come curatrice indipendente e presso la Galleria Gallerati di Roma.

 

Mario Vidor

Le pietre della memoria

A cura di Noemi Pittaluga

Anteprima d'arte contemporanea (Piazza Mazzini, 27 - 00195 Roma - Scala A, terzo piano - Tel. + 39 06.37500282 - Fax + 39 06.37353754)

Inaugurazione: giovedì 16 novembre 2017, ore 19.00

Fino al 23 febbraio

Orario: dal martedì al venerdì 15.30/19.00

Ufficio stampa: Anteprima d'arte contemporanea,

Informazioni: \n Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. , www.anteprimadartecontemporanea.it

 

Piazza Mazzini, 27 - 00195 Roma - Tel. + 39 06.37500282 - info@anteprimadartecontemporanea.it - www.anteprimadartecontemporanea.it

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Angeli, Festa, Schifano - Piazza del Popolo

Inaugurazione: 04 Maggio dalle ore 19:00

Galleria: Anteprima d'arte Contemporanea - Roma

a cura di:  Luigi Di Gioia e Giuseppe Ussani d'Escobar

Testo critico di Giuseppe Ussani d'Escobar

 

Piazza del Popolo

Angeli, Festa, Schifano

 

Erano gli anni di quella Roma che rappresentava il centro del mondo, potevi anche non viaggiare, prima o poi tutti quelli che contavano: scrittori, artisti, attori, cantanti e registi avrebbero attraversato Piazza del Popolo. Un microcosmo magico con al centro il suo obelisco attirava personaggi che si muovevano tra la realtà ed il sogno. Tre giovani avrebbero eletto a loro regno questo splendido angolo della città eterna: Angeli, Festa e Schifano. Roma era in piena trasformazione, seppur radicata nella sua storia millenaria, le luci si accendevano e la notte diventava giorno e diventava voglia di vivere, di lasciarsi coinvolgere dall’euforia montante; era “la città che non dorme mai”, gemellandosi idealmente ed emotivamente a New York e a Londra. La pubblicità e la segnaletica delle strade penetravano la sensibilità attenta e vorace dei giovani, così come era accaduto precedentemente negli States, ed ecco i primi monocromi di Schifano, smussati nei loro contorni come delle diapositive, si riempiono delle immagini della Coca Cola e della Esso, sigle che erano entrate nel nostro quotidiano con l’incisività dei caratteri delle antiche lapidi romane che sfilavano lungo l’Appia, formule del nuovo rituale della modernità, dell’invito al consumo della società di massa. Schifano porta in queste scritte-immagini delle sbavature e dei gocciolamenti, il marchio-icona rimane sottomesso, nonostante la brillantezza ed apparente durevolezza, al logorio del tempo. Angeli realizza l’Half Dollar, l’aquila è un simbolo inequivocabile contaminato dalla retorica del potere, ma dalle mani dell’artista rinasce quale una fenice imperfetta, incompleta, comunque potente nella sua caratterizzazione tutta pittorica e visiva, recuperando l’immortalità del simbolo. I profili urbani delle nostre città erano irreparabilmente cambiati, le periferie si erano estese, i centri storici rinascimentali e barocchi subivano alterazioni e modifiche,  lo spirito della modernità era arrivato anche da noi con la sua attraente ed ipnotica violenza.  Festa, con la serie delle sue “Piazze d’Italia”, tra le quali “Il Castello Sforzesco”, evocava la tradizione antica delle nostre architetture, invocando la memoria umanistica a sostegno e testimonianza della nostra speciale superiorità culturale nel contesto europeo e internazionale. Allo stesso tempo le sue “Piazze” sono realtà sospese ed evanescenti, che rispecchiano la solidità e la fragilità surreale delle sue apparizioni. In quegli anni, un giovane  si muoveva nel mondo dell’arte e frequentava la Galleria Soligo, luogo d’incontri e di emozioni, di magiche convergenze, poiché nulla in questa vita è veramente casuale; l’amicizia con il gallerista faceva si che si appassionasse sempre di più a Tano Festa, fino ad invaghirsi di una delle più belle opere di questo artista: “Il Carnevale – Omaggio aEnsor”. Ensor e Festa in questa tela s’incontrano perfettamente, in una totalità di armonia, intuizioni ed emozioni.  Nei ritratti di quel periodo Tano incarna i suoi fantasmi, il desiderio appassionato di vivere, in una oralità bulimica di origine infantile:  i volti delle persone reali od ispirati ai capolavori della letteratura e dell’arte, conservano e denunciano sempre l’identità di maschere, burattini e bambole ed entrano ed escono dal palcoscenico del suo teatro che altro non è che Campo de’ Fiori; l’artista-giullare shakesperiano si è costruito così il suo “environment” nel quale mette in scena, tra il conscio e l’inconscio, il suo “happening” compiacendosi della reazione dei partecipanti-spettatori.   Le maschere, in Tano Festa ed in James Ensor, possiedono l’energia vitale ed esplosiva degli istinti più bassi e demoniaci dai quali si vorrebbe fuggire e che nel contempo servono ad allontanare la paura della morte, esorcizzandola.  “ L’Addio a Londra” è la sintesi dell’universo di Festa: la finestra non costruita ma dipinta si affaccia su Trafalgar Square, la messa a fuoco è sulla colonna di Nelson, poi uno stacco e s’intravede la scarpa e l’ombrello di un uomo che si allontana uscendo dalla superficie pittorica, una mano affiora dal nulla ad invadere la scena con un primo piano magistrale ed accenna un saluto, le nuvole in alto trascorrono nel cielo. Lo spazio vive di sovrapposizioni ed un film si svolge verticalmente in una successione di fotogrammi. Il cinema, la televisione e la fotografia, i nuovi mezzi per leggere ed interpretare la realtà avevano incantato la fantasia degli artisti. La bella “Palma”, circondata da colori luminosi e prepotenti, svetta nel suo biancore acceso, ed è quasi la proiezione di un miraggio che ci viene incontro dalla memoria nostalgica della lontana Libia, terra natale di Schifano, che egli rivivrà ancora nei suoi omaggi a Leptis Magna e nei cieli stellati.  Angeli, Festa e Schifano sono eredi e consumatori d’immagini culturali che estraevano dal contesto abitudinario della vita quotidiana rendendole Pop ed anche Op  e restituendole al vigore del simbolo. I tre compagni di vita e di avventure sono artisti border line, la cui esistenza è diventata essa stessa opera d’arte;  non hanno avuto paura della morte, con lei hanno convissuto nel porto franco del sogno, e proprio per questo non sono mai morti, forse non sono mai nati, forse sono stati solo immaginati, semplicemente personaggi immortali di un film che non si è mai concluso.

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